di Mirella Vilardi
Il culto di Giano, dio bifronte dei solstizi, cristianizzato nei due San Giovanni le cui ricorrenze (il Battista e l’Evangelista) sono speculari, l’una in giugno l’altra in dicembre, ha influenzato diversi toponimi in tutto il nostro Paese e compare su più gonfaloni. In Umbria ricorre in numerosi suffissi, fino all’inequivocabile Giano dell’Umbria (ammesso a far parte dell’Associazione “I Borghi più belli d’Italia” lo scorso 9 novembre). Così, come inequivocabile è la vocazione agricola che le stesse feste dei santi cadenzano nel periodo dei teneri fili di frumento, ai primi mesi dalla semina e della mietitura. Un impasto di storia, mitologia, fede, lavoro, quotidianità che è leggibile nel paesaggio, nel rispetto che se n’è avuto, nella lungimiranza, in quel sentirsi hic et nunc senza perdere di vista da dove si viene né dove si andrà. Nei borghi umbri, sulle colline e sulle piane olivate, il dualismo temporale è più percepibile che ovunque, è più affascinante, più atavico, quasi commuove. Ai credenti e laici, innamorati o animi solitari, è impossibile sottrarsi al suo fascino e, anzi, ogni volta si pensa di ritornare, ogni volta si vuole conoscerne di più, ogni volta si cerca l’approfondimento, ci s’illude di farne un poco parte, almeno per qualche ora, un pomeriggio di novembre.
E dunque, abbiamo contattato Fabiano Zazzera dell’omonima azienda vitivinicola a Collevalenza, nelle campagne di Todi, perché, nonostante sia l’ulivo carta d’identità del luogo, la vite, che ci ammalia, è sempre stata presente e oggi vanta una decina di Doc e due Docg, coltivate in piccoli appezzamenti di qualche ettaro inseriti sempre con grazia nel panorama, di cui ne esaltano varietà e bellezza. Fabiano, insieme alla sorella Beatrice e alla mamma Fiorella (è lei che pota le viti!), hanno deciso di continuare l’attività agricola dei nonni, coltivatori di seminativi e produttori di olio, trasformando i rari filari di vite in circa nove ettari lavorati a Grechetto, Sangiovese e Merlot più un intruso.
Si chiama Grero e, benché sia l’ultimo nato, è il più antico, viene da lontanissimo, è una scommessa, caparbiamente azzardata da Fabiano, che ha coinvolto Alberto Palliotti dell’Università di Perugia, Alessandro Carletto enologo dell’azienda e l’Istituto di Genetica vegetale del CNR, Unità di supporto di Perugia. Un pool di studiosi che ha dovuto districarsi, oltre che tra le innumerevoli analisi di laboratorio, anche tra fuorvianti omonimie.
Iscritto al Registro Nazionale delle Varietà di Viti con il codice 448 il 22 aprile 2011, il Grero, altresì detto Nero di Todi, deve il suo nome alla sintesi di Greco Nero. A oggi, le citazioni più antiche sono state rintracciate sull’Annuario Generale per la Viticoltura ed Enologia del 1893 e sulla Miscellanea ai primi del ‘900 sempre come Greco Nero. In realtà il termine “Greco” è riferito a molte varietà che hanno poco in comune e diffuse in molte regioni, quali Campania (Greco Nero di Avellino), Abruzzo (Greco Nero di Teramo), Lazio (Greco Nero di Velletri), Toscana (Greco Nero Toscano), Marche (Greco Nero delle Marche o Verdicchio Nero) e Umbria (Greco Nero di Terni). Tuttavia, l’unico vitigno che può ufficialmente fregiarsi di tale nome è quello coltivato in Calabria, soprattutto nelle province di Crotone e Catanzaro e iscritto con il numero 99 nel Registro Nazionale dal 1970.
Da una vite di 120 anni recuperata in località Romazzano, in prossimità del vigneto Zazzera, da Alessandro Carletto in fase di stesura della tesi di laurea, la ricerca e il progetto ebbero inizio. Ora si sa che il Nero di Todi era coltivato prevalentemente in coltura promiscua con viti “maritate” a piante di acero, olmo, frassino, pioppo nero, che Il vino ottenuto era di un colore molto carico ed era utilizzato nella vinificazione del Governo “alla Toscana”, sottoposto cioè a una seconda fermentazione, più lenta, che consente di ottenere un vino dal gusto fruttato e leggermente frizzante, e come energetico ricostituente alimentare.
L’analisi biomolecolare, effettuata per discriminare il Nero di Todi dal vero Greco Nero calabrese e da altri vitigni, ha rilevato la sua diversità genetica da tutte le accessioni analizzate, ovviamente anche dal Sangiovese, preso come vitigno di riferimento per tutti i parametri successivamente valutati.
Nel quadriennio 2005-2008, il Nero di Todi ha mostrato, rispetto al Sangiovese, una maturazione più tarda di venti giorni alla quale è seguita, in fase di vendemmia, una decisa superiorità fenolica con significativi aumenti sia dei polifenoli totali (+85%), sia soprattutto degli antociani (+202%). Nel Nero di Todi anche il contributo dei tannini dei vinaccioli ha evidenziato un valore percentuale inferiore (-12%) rimarcando un più basso potenziale di estrazione degli stessi, spesso immaturi e aggressivi, durante la fermentazione.
Le indagini sul vino, eseguite dopo un anno di affinamento in bottiglia, hanno prodotto i seguenti dati:
Parametri | Nero di Todi | Sangiovese |
Alcool (% vol.) | 12,41 | 11,12 |
Acidità totale (g/l) | 5,47 | 5,70 |
pH | 3,56 | 3,61 |
Estratto Secco (g/l) | 28,1 | 24,0 |
Polifenoli totali (mg/l) | 2.605 | 2.636 |
Tannini totali (mg/l) | 1.011 | 907 |
Tannini totali (% sui polifenoli totali) | 38,8 | 24,4 |
Polifenoli flavonoidi non tannici (mg/l) | 1.923 | 2.485 |
Acidi fenolici (mg/l) | 545 | 143 |
Antociani (mg/l) | 1.024 | 396 |
Intensità colorante | 22,6 | 10,0 |
Tonalità | 0,81 | 0,78 |
Il profilo sensoriale mette in chiara evidenza il ruolo che questi parametri compositivi giocano sull’aspetto visivo, olfattivo e tattile-gustativo. E l’annata 2015, che Fabiano ha stappato per noi, ha stupito, di primo acchito, per il colore violaceo, che farebbe pensare a un vino novello per effetto della Malvidina (antocianidina detta “il colorante della frutta” presente in misura quasi tripla rispetto al Sangiovese). Al naso e al palato è intenso, complesso di note balsamiche, speziate, di radice di liquirizia, frutta essiccata, tabacco, bacche rosse e via libera al patrimonio olfattivo di ognuno. Necessita di aspettare nel bicchiere, tra una chiacchiera e l’altra, tra un pensiero e una leggerezza, come avviene ai cosiddetti “vini da meditazione”. Può essere abbinato a un pranzo succulento e sontuoso, ma rischia di rubare la scena ai piatti, fa parlare di sé, è attore protagonista.
Nondimeno è affascinante l’abito con cui si presenta. In nero con stelle dorate, l’etichetta è opera di Paolo D’Orazio, come altre in azienda. Dopo i rossi Barbadoro, Biccicocco, Nerobacco, rievocanti suggestioni dell’inferno dantesco, la sensibilità del produttore e l’intuizione dell’artista, hanno voluto pensare al Paradiso. Chissà con quanta allusione al contenuto della bottiglia.
3 Comments
Sono molto contenta che ci sia finalmente qualcuno che non parli di vino solo quando si tratta di eccellenze premiate ed etichette blasonate.
Fondamentale la ricerca delle nostre radici attraverso la riscoperta di vitigni autoctoni e la passione per i territori anche se minuscoli .
Fanno parte del nostro passato ma anche del nostro futuro.
Grazie Mirella
Articolo molto interessante come interessante è il filone dei vitigni autoctoni che molti produttori stanno riscoprendo! Sorprendente come nella piccola regione del Sagrantino ci sia un altro vitigno che presenta simili caratteristiche di struttura e longevità..la descrizione di Mirella inoltre fa proprio venire voglia di cercarlo per provarlo!
Che dire…Leggere del Grero o Nero di Todi, che dir si voglia, è come scoprire una gemma rara ed imprevedibile tenuta nascosta nei segreti meandri del nostro meraviglioso paese.
Quante storie vissute e sconosciute! Quanto amore per lembi di terra, piccoli tasselli di un mosaico costruito con pazienza e sapere!
Grazie MIirella Vilardi per questi scritti rivelatori.