di Mirella Vilardi
Togli dalla Sicilia Siracusa, Ragusa, Palermo, Trapani, Marsala, Marzamemi, Noto, Agrigento e sei a Cipro. Terra mediterranea che, con la Sicilia ha in comune, appunto, il suo essere isola sferzata da venti, il mare, la variopinta vegetazione dai colori caldi ed effluvi, intensissimi nelle ore dopo il tramonto, capaci di scavare nelle memorie più recondite.
E le pietre. Cipro, come la Sicilia, è storia sotto il sole, è siti archeologici, città e cripte sotterranee, nella bella tinta ambra rosata, inesprimibile. La Cipro Greca è in alcuni angoli davvero europea, s’innalzano i grattacieli a Limassol, pullulano di locali mondani le strade e il lungomare di Pafos, eppure, sopra tutto, può la luce, quella calda, che tinge di turchese il cielo così diverso dal blu della Liguria o della Provenza.
Sopra tutto può quel senso di continua periferia, nelle città, dove cerchi un centro che non trovi o che è troppo piccolo o non è proprio in centro, così come siamo abituati a intenderlo.
Sopra tutto, può, a Cipro, la natura selvaggia, la roccia bianca nella quale hanno scavato strade, la biodiversità che propone, in pochi metri, il banano, l’ulivo, le distese di limonium, dai delicati fiori violetti e bianchi che qui chiamano “immortali”, ed è curioso che si trovino in abbondanza tra le tombe dei Re, un ossimoro, viene da pensare, o forse una speranza filosofica offerta dalla natura ad animi sensibili.
A Cipro, tra i resti delle tante civiltà che l’hanno voluta, amata, conquistata, abbandonata, vivono da tempo immemore le viti. Le vedi scorrere oltre il finestrino dell’auto con guida a sinistra, ricordo del dominio inglese fino al 1960, come soldatini in fila. Sono alberelli, non più alti di un metro, dai tronchi robusti e, in questa stagione, dalle foglie verde caldo. Affondano le radici in terreni troppo spesso pietrosi, a volte convivono coi pini o altre essenze di montagna su pendii che non possono non alludere a una vera viticoltura eroica.
Guidata da Lenia Georgiou, versatile abitante del luogo, abbiamo intrapreso una delle sette strade del vino, percorsi che si addentrano nell’entroterra, dove i villaggi minuscoli resistono con un’identità più netta e le cantine, di ultima generazione, si alternano sulla via ad antichi monasteri, o cappellette, addirittura a luoghi di culto che diremmo “abusivi”, allestiti in grotte naturali nella roccia, dove arde perenne una lampada ad olio e numerosi sono gli ex voto, sotto forma di bambole di cera, inquietanti e affascinanti, ma questo apre ad altri discorsi.
Siamo partite da Pafos sulla E 606 e, per circa un’ora, abbiamo attraversato il più vario dei paesaggi possibile, dalla roccia, alle distese verdi, dalle vigne, al monastero Chrysorrogiatissa, dove la sosta è stata d’obbligo e l’immersione in una architettura del 1100 emozionante. La meta, tuttavia, era la visita di una cantina per meglio conoscere le varietà, i vitigni, i metodi di vinificazione, per meglio carpire il fascino di un’arte, quella di fare il vino a Cipro, che dura, gli scavi ne hanno reso testimonianze, da almeno cinquemila (cinquemila!) anni. E le sorprese non sono mancate. A ridosso della strada, nel comune di Pano Panagia, ci siamo fermate alla Vouni Panayia winery, dove un simpatico e preparato Pedro, ultimo dei tre fratelli Kyriakidis che conducono l’azienda, avviata dal padre nel non lontano 1987, ha raccontato dettagli e aneddoti che bene hanno preparato l’approccio ai vini in degustazione. I fratelli hanno studiato Enologia all’università di Firenze e le vasche di acciaio che allestiscono la moderna cantina, sono di fattura italiana, e così anche il nostro amor di patria è soddisfatto.
Emozionanti, però, sono stati i vini, tutti autoctoni di Cipro, le cui etichette recitano “Franc de Pied”.
Emozionante è l’antica foto sulla parete, che mostra una donna azionare un vecchio torchio a mano e il racconto secondo il quale erano proprio le donne a trasformare le uve in vino, uve prodotte, non senza fatica, dagli uomini sugli irti pendii di montagna. Ancora oggi la viticoltura è tutta manuale e si avvale di strumenti rudimentali, dagli impianti delle barbatelle alle vendemmie.
Emozionante è stata l’evocativa storia della vigna di Alina, donna che possedeva e curava quel pezzetto di terra e alla quale hanno dedicato la loro etichetta di Xinisteri, autoctono a bacca bianca su viti di 70 anni, degustato nell’interpretazione del 2021, ammaliante nella bella ampiezza di note floreali, di agrumi e frutta a polpa gialla che al palato si mescolano ad una bella mineralità. Lo Xinisteri, ci dice Pedro, è la vite più diffusa sull’isola. Insieme alle altre bianche Promara, di cui abbiamo assaggiato l’annata 2019, dal colore e dal gusto molto intensi, Spourtiko e Morokanela e alle nere Maratheftiko, Ntopio Mavro, Yannoudi, concorrono alle 200.000 bottiglie prodotte annualmente, tutte, è bello ripeterlo, da uve autoctone, mediterranee, di Cipro.
Nel futuro dell’azienda, posta a mille metri di altitudine, ai piedi della catena del Troodos, altri autoctoni si sono affacciati, già impiantati in piccoli appezzamenti dell’azienda.
Il vino rosso degustato era il Barba Yannis, dedicato al nonno da questa terza generazione di coltivatori e vinificatori pimpanti di cui, immaginiamo, si sentirà molto parlare. Ottenuto da uve Maratheftiko, è un vino, affinato in barrique, da possibile lungo invecchiamento. Abbiamo assaggiato l’annata 2018 e ci ha conquistato con la sua complessità gustativa di cioccolato, tabacco, vaniglia, seguite al primo impatto di frutta rossa e vegetazione mediterranea.
Altre bottiglie di altre aziende, abbiamo ordinato ai tavoli dei ristoranti. E il fil rouge sembra essere l’autenticità, la franchezza, l’originalità di un “varietale” che non è delle nostre latitudini.
1 Comment
Nella lettura di questo articolo mi è venuta voglia di andare a Cipro per provare dal vero le stesse emozioni che mi ha procurato leggendolo, senza trascurare di assaporare quel vino che sicuramente sarà ottimo solo perché fatto da uve prodotta da viti basse e che crescono su un’isola assolata.
Mi è piaciuto.